Incontriamo Sonia Montegiove, giornalista pubblicista dal 1997. Lavora nel settore dell’ICT come analista programmatore e formatore. Ha collaborato con testate di informazione locale e curato rubriche di nuove tecnologie. Dal 2011 scrive per Girl Geek Life, è blogger e contributing editor. 

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Oggi, le tecnologie informatiche ed internet stanno determinando nella nostra società un profondo cambiamento non soltanto organizzativo, ma anche culturale.

L’ict rappresenta ormai il sostrato e lo strumento fondamentale per svolgere la maggior parte delle attività: quanto per lei questo è vero e come si riverbera nella sua attività lavorativa?

Potrei astenermi dal rispondere visto che lavoro da sempre nel settore informatico, ma vorrei cogliere questa occasione per sottolineare quanto, nonostante la consapevolezza del fatto che le tecnologie hanno portato in questi anni significativi cambiamenti d’abitudini, siano ancora insufficienti gli interventi di formazione e informazione sul digitale. Tutti viviamo il cambiamento ma pochi siamo consapevoli degli strumenti a disposizione e di quanto questi possano migliorare la nostra quotidianità, solo se usati nel modo corretto.

Negli ultimi anni, le Pubbliche Amministrazioni sono state investite da una serie di interventi di riforma che hanno imposto la gestione in senso informatizzato delle attività e della interazione con altre PP.AA. nonchè con il pubblico degli utenti (tra gli altri, D.P.R. 445/00, D.Lgs. 82/05, D.L. 179/2012).

In base alla sua esperienza personale e professionale, gli enti pubblici italiani utilizzano la tecnologia quanto e come dovrebbero? Oppure c’è “diffidenza” o, comunque, “difficoltà” verso il mondo del digitale?

Lavorando in PA, da dentro quindi, posso dire che la difficoltà sta spesso nel confondere le tecnologie con i processi. Quando si digitalizza c’è la necessità di analizzare e ridisegnare i processi semplificandoli, spesso cambiandoli radicalmente. Trasformare in azione digitale la vecchia azione “da carta e penna” non fa che replicare gli stessi errori, spesso amplificandone gli effetti negativi. Quando le PA approcciano il problema pensando prima alle tecnologie e agli strumenti piuttosto che ai processi organizzativi le attività si complicano e, nel passaggio al digitale, si perde addirittura in efficienza e efficacia.

Quali sono, nella situazione attuale, le principali difficoltà che la P.A. incontra nella gestione IT?

Parlare in generale è probabilmente sbagliato, visto che in base alle dimensioni, alla tipologia e al contesto in cui la PA è inserita possono esserci ostacoli differenti che vanno dalle insufficienti risorse a disposizione, alla carenza di infrastrutture, alla scarsa capacità di progettazione. In generale si può solo dire che i ritardi accumulati nell’agenda digitale italiana (riportati puntualmente in questo recente articolo http://www.agendadigitale.eu/egov/432_agenda-digitale-ecco-tutti-i-ritardi-del-governo.htm) non aiutano nessuno.

Sappiamo che il patrimonio informativo gestito dalle Pubbliche Amministrazioni è enorme. Esso è formato -oltre che dai dati e  documenti che le stesse producono e detengono – da una serie di informazioni non strutturate, di fonte eterogenea (commenti e post dei social network, segnalazioni provenienti da sportelli, comunicazioni via e-mail), di cui le P.A. medesime sono spesso non consapevoli.

E’ giusto, secondo lei, parlare in questo senso di “Big Data”?

E’ sicuramente corretto parlare di Big Data dove sono presenti le famose 3 V (questa infografica lo spiega molto bene http://www.pros.com/big-vs-big-data/): Volume, grandi quantità, Variety, la presenza di dati di tipologia e formato differente, Velocity, dati che si producono e cambiano rapidamente (e qui si potrebbe generare la quarta V di Variability). La PA ha il suo grande bacino di big data ed è probabilmente uno dei più grandi produttori e collettori di informazioni che, se usate correttamente, sarebbero in grado di costruire “scenari prevedibili”. L’ostacolo ad un uso corretto (talvolta purtroppo proprio all’uso dei dati) credo risieda nella scarsa consapevolezza del valore aggiunto che questi potrebbero portare.

Quanto e come le tecniche di trattamento dei “Big Data”, se applicate ai dati e documenti amministrativi, potrebbero migliorare l’attività delle PP.AA.?

Per deformazione professionale e passione per i dati dico che questi generano valore sempre. Nel caso dei big data già la semplice raccolta di quelli che sono chiamati “dati grezzi”, ovvero non rielaborati, e il metterli a disposizione dei cittadini e delle imprese che intendono usarli (e qui si tocca il tema dell’open data e dell’open government) porta trasparenza nell’attività amministrativa e quindi valore. Se poi i dati sono rielaborati, si ha una conoscenza più approfondita dei contesti in cui si opera, la possibilità di monitorarne le evoluzioni in tempo reale e quindi la possibilità per le PA di programmare meglio gli interventi da fare e i servizi da mettere a disposizione.

Oggi si parla molto anche di Open Data. Quanto è “open” la P.A. italiana e quanto risponde, in questo senso, ai dettami normativi (ad esempio il C.A.D.)? Si potrebbe fare qualcosa per rendere la sua attività ancora più accessibile ed aperta nei confronti del cittadino?  

La situazione italiana per ciò che riguarda gli open data non è rosea. Si parla molto (troppo?) di trasparenza e open data ma poi si attua poco. Soprattutto si fa fatica a comprendere le opportunità che dall’apertura dei dati potrebbero arrivare. E parlo di aperture di dati interessanti anche per le imprese. Troppo spesso le PA “liberano” i dati più facili da liberare come, solo a titolo esemplificativo, l’elenco delle farmacie comunali, i numeri di telefono degli uffici, l’elenco delle biblioteche… Questi dati dovrebbero per loro natura essere a disposizione di tutti e non fanno certo la differenza. Il rischio, poi, è che liberando questa tipologia di informazioni si arriva ad affermare che nessuno è interessato agli open data e che nessuno li chiede (quindi perché metterli a disposizione?). Per cambiare la situazione ritengo che ci sia la necessità assoluta di consapevolezza circa le opportunità legate ai dati aperti. E la consapevolezza passa attraverso azioni di formazione e informazione rivolte a tutti.

Data la sua esperienza nel settore della tecnologia applicata alle PP.AA., quanto secondo lei uno strumento come Semplice può migliorare o rendere più agevole l’attività dell’Amministrazione italiana?    

Il vantaggio più importante che ho colto nel progetto Semplice è quello di riuscire a individuare delle ontologie che consentono di costruire legami tra i diversi documenti e le differenti informazioni prodotte. Anche nelle PA in cui gli atti sono digitalizzati, infatti, manca spesso una visione d’insieme dei dati, quella che può fare la differenza nella lettura e comprensione di un sistema complesso, indispensabile nei processi decisionali.